Presentata a Roma la ricerca “La filiera agroalimentare tra successi, aspettative e nuove mitologie”

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2 novembre 2009

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Da due anni si celebra il processo – più mediatico che altro – che ha per protagonista il prezzo di frutta e verdura nel passaggio dai campi alla tavola. Da due anni si levano alte le voci di chi reclama una più giusta remunerazione di quanto produce e di quelli che, invece, si difendono. Comune ad entrambi è la spinta emotiva più che la ragione o la certezza dei dati a cui si rifanno.
A tale stato di cose cerca di porre rimedio la ricerca “La filiera agroalimentare tra successi, aspettative e nuove mitologie” presentata da Nomisma il 28 ottobre a Roma, presso la Sala capitolare del Senato della Repubblica.
In Italia si spendono ogni anno per alimenti e bevande 215,3 miliardi di euro all’anno, il 23,3 per cento sul totale dei consumi. Alle spalle c’è una filiera agroalimentare che contribuisce al Pil per l’8,4 per cento e all’occupazione per il 12,6 per cento: una componente importante dell’economia nazionale, che patisce, tuttavia, l’estrema parcellizzazione dell’agricoltura, una pluralità di attori economici – ognuno dei quali grava sul prezzo finale di ogni prodotto e sottrae competitività al sistema agroalimentare nazionale – e un carico di imposte indirette (in larga parte riferibili all’Iva) tra le più alte in Europa (secondo solo a quello tedesco). D’altra parte, la distribuzione moderna italiana presenta un grado di concentrazione al di sotto di quello dei principali Paesi europei. A ciò si aggiunge la penalizzazione di un sistema dei trasporti, sia su gomma sia su rotaia, che per le imprese italiane ha un costo chilometrico più elevato della media europea e di quello riscontrato in altri Paesi. Analogo discorso vale per il prezzo dell’energia elettrica per uso industriale.
Il risultato è che per ogni 100 euro che si spendono in Italia per alimenti e bevande, 16 euro vanno all’agricoltore, 12 all’industria alimentare, 6 al commercio all’ingrosso, 5 alla distribuzione a libero servizio, 3 al dettaglio tradizionale e 17 alla ristorazione. A ciò si aggiungono 27 euro di costi per trasporti, energia, packaging e pubblicità, 9 di imposte dirette e 4 di... import. Già, perché non a tutti è noto che in Italia ci sono solo alcune filiere autosufficienti, tra le quali quelle del vino e delle carni avicole. La maggior parte ha bisogno di approvvigionarsi di materie prime all’estero. Una logica che “allunga” la già lunga filiera agroalimentare, con importanti riflessi sul prezzo finale di vendita al consumatore. Ma che è anche un drammatico autogol per il tanto sbandierato made in Italy alimentare, punta di eccellenza della nostra economia nei mercati mondiali.
Portare in tavola prodotti meno costosi e garantire a tutti gli attori una giusta remunerazione significa ridurre i costi della filiera agroalimentare – più che intervenire sugli utili, data la loro ridotta incidenza – attraverso il recupero di efficienza e la riduzione dei tanti passaggi e intermediazioni, ognuno dei quali grava sul prezzo finale di vendita.
“Occorre superare sterili polemiche e, partendo da un’analisi oggettiva della filiera agroalimentare nazionale, sviluppare un confronto tra produttori e moderna distribuzione che permetta di individuare insieme i punti critici e le possibili soluzioni: ciò a cui dobbiamo puntare è un progetto che permetta di recuperare efficienza a tutti i livelli della filiera”, fa notare il presidente di Ancd Conad, Camillo De Berardinis.“L’obiettivo è dare vita a progetti comuni in grado di garantire maggiori margini e di migliorare l’offerta al consumatore, rendendo più trasparente la formazione del prezzo. Dobbiamo costruire un tavolo di confronto propositivo, in grado di promuovere anche all’estero una qualità garantita tutta italiana e creare un circuito virtuoso che parta dal produttore per arrivare, con una filiera più corta possibile, e dunque più conveniente, al consumatore”. “La fase presente, di difficoltà generalizzata, deve essere utilizzata come un’occasione per razionalizzare e rendere più coerenti i rapporti all’interno della filiera”, afferma il presidente di Federalimentare Gian Domenico Auricchio, “Lo studio Nomisma conferma infatti che ancora molto si può e si deve fare per recuperare efficienza a vantaggio del consumatore finale: dai costi della logistica ai trasporti, ai prezzi dell’energia e dei servizi fino al sistema delle imposte. Gli agenti modernizzanti del Paese, in grado di produrre ricchezza e trasferire valore al consumatore sono proprio l’industria alimentare e la distribuzione organizzata. Per questo mi auguro che insieme nei prossimi mesi riusciremo finalmente a mettere a punto un protocollo d’intesa finalizzato al dialogo e alla trasparenza.”




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