Lettera di Bolognini al Presidente della Cooperativa La Terra e il Cielo
Conduzione terreni e forestale
Pubblichiamo di seguito il testo integrale della lettera.
Ancona 29 Luglio 2010
BRUNO SEBASTIANELLI
Presidente Cooperativa
La Terra e il Cielo
Piticchio di Arcevia
Oggetto: Coop La Terra e il Cielo – Trent’ anni di biologico.
Caro Bruno,
ti ringrazio per le emozioni che ci hai regalato con le iniziative del trentennale della tua cooperativa dello scorso fine settimana.
Non so se ringraziare maggiormente te o i tuoi soci; nel dubbio lo faccio per entrambi perché sabato, più di tante lezioni teoriche, ho vissuto uno spaccato di come deve funzionare una cooperativa: un leader/presidente che trasmette valori, passioni e convinzioni, una compagine sociale che dimostra di saper stare in cooperativa esprimendo spessore culturale, attaccamento e comportamenti veramente virtuosi.
Mi verrebbe da dire che non solo i prodotti che trattate, ma il vostro modo di essere e di vivere l’esperienza cooperativa è “bio”.
Peccato che non abbiate registrato il convegno (almeno così credo) perché l’insieme degli interventi: il tuo, quello di Francesco e quelli dei tuoi soci sono stati una “Lexio” di autentico vissuto cooperativo.
Al nostro convegno de Le Busche del 28 Maggio scorso abbiamo parlato dell’esigenza, per un auspicabile rilancio della cooperazione, di un “supplemento d’anima”, di ricercare quel quid in più che deve caratterizzare la vita di una cooperativa pena la sua deleteria omologazione.
L’amico Manlio Brunetti, intervenuto a quel convegno ed il cui testo ti allego, è andato al cuore del problema portando la testimonianza di un’esperienza storica realizzatasi proprio nelle terre dove oggi insistono i terreni dei tuoi soci ed invitandoci a riflettere sul perché, di questo passo, non andremo molto lontano.
Il nostro intendimento, come lui suggeriva, è quello di ritornare su questi temi e lo vorrei fare in autunno ospiti magari della Cooperativa La Terra e il Cielo.
La ragionevole fiducia che ce la possiamo fare l’avverto in un clima di voglia di non mollare che noto in tante cooperative e che sabato ho respirato “a pieni polmoni” nella tua.
Sappiamo poi quanto sia difficile passare dalle parole ai fatti ma avverto, forse perché pressati dallo stato di necessità, volontà nuove, sinergie ancora inespresse ma di grande potenzialità da sviluppare dentro il sistema Legacoop.
Quanto assomiglia, ad esempio, la tua “Pasta firmata” al progetto “Mettiamoci al faccia”di COOP e Cooperative dell’agroalimentare, appena varato!
Trent’anni, quindi, non per celebrare la nostalgia del passato ma base culturale (ed imprenditoriale) per rilanciare alla grande in direzione di ciò a cui tu ed io teniamo di più: UN ALTRO SVILUPPO!.
Ancora grazie e ciao.
Teodoro Bolognini
L’allegato di Manlio Brunetti:
Sul Convegno a Le Busche del 28 maggio 2010
Debbo al dott. Bolognini la mia partecipazione (piuttosto "fuori le righe") al Convegno su "l'impresa cooperativa, opportunità del futuro". Gli è che, "angariato" dopo il ]970 ad occuparmi delle Carte dell'eremo-cenobio di Fonte Avellana, ho scoperto (alla cristoforo colombo!) che quei monaci avevano fondato e amministrato dal XII alla fine del XV secolo una cooperativa agricola di circa 3700 ettari dentro la vallata fra la dorsale collinare che dal Catria scende all'Adriatico e la sponda del Cesano che dal Catria sfocia in mare poco sopra Senigallia. Avevo sentito parlare, tra gli anni '60-'80 del '900, di cooperative agricole nelle Tre Valli (Esino-Misa-Nevola), ma sapevo che non avevano avuto fortuna. Mi sorprese e incuriosì che ce ne fosse stata una in quel lontano e "buio" Medioevo. Forse dirne qualcosa avrebbe un po' distratto gli ascoltatori sprofondati in ardite prospettive futuristiche, e, non si sa mai, potuto suggerire qualcosa. Era da ricordare che i proprietari ecclesiastici e laici di terre, già dal V secolo d.C. all' essersi sfasciato dell'Impero, nel tracollo delle Istituzioni, nell'anarchia più totale e nell'andirivieni di orde barbariche lungo la penisola, s'erano inventati le "donationes pro salute animae" delle loro proprietà immobiliari ai Monasteri (protetti dal papa e/o dall'Imperatore) con tanto di atti notarili e precise confinazioni, con la speranza di farIe recuperare dai loro discendenti una volta (dopo il Mille...) passata la buriana. A neppure cento anni dalla fondazione ( 970 d.C.), proprio grazie alla fama di santità dei suoi monaci che tali donazioni le procurava, Fonte Avellana si trovò proprietaria del più grande patrimonio terriero del Centro Italia. Non lo aveva cercato, anzi questo rischiava di stornarla dalla sua vocazione alla penitenza e alla contemplazione, tanto che molti dei suoi eremiti lo videro come una sciagura e una tentazione. Ma S. Pier Damiani che vi dimorò e ne fece la prima riforma durante il secolo XI, fece prevalere la tesi che tutto quel patrimonio era un dono di Dio da amministrare sagacemente a vantaggio degli homines de terra (servi della gleba) trattati invece dai padroni ancor peggio dei buoi e dei muli. Così i monaci dell'Avellana realizzarono il capolavoro di una grandiosa azienda agraria compatta di circa 3700 ettari nella valle del Cesano (che si prestava assai bene in ragione della sua conformazione e quasi totale chiusura), vendendo proprietà lontane e scomode e comperando o permutando, dentro la vallata, terreni di altri monasteri. Ed affittarono tutti i terreni ai contadini che ci lavoravano già, lasciando ad essi tutti i proventi e redditi, salvo un canone annuale quasi puramente simbolico e l'impegno a favorirne la produttività sotto la vigilanza e la guida tecnica dei monaci. Organizzarono la vita sociale dei contadini e il lavoro agricolo a mo' di cooperativa: divisa l'azienda in centurie, e diviso il lavoro agrario nelle diverse specializzazioni (anche dell'artigianato sussidiario), tutte le squadre lavoravano collettivamente secondo le esigenze morfologico-chimiche delle terre e delle stagioni e secondo organigrammi prestabiliti, come se tutti fossero responsabili di tutta l'azienda. Anche i raccolti erano fatti da tutti, ed ogni contadino aveva la parte - a seconda della quantità della terra che aveva in affitto e delle persone formanti la famiglia (in genere: tanti ettari quante le persone, senza differenze di sesso e età) - di tutti i prodotti dell’ intera azienda. Un miracolo sociale, per la mentalità feudale di quei tempi, nei quali non si ammetteva l'uguaglianza di diritti e di doveri fra gli umani, neppure fra i cristiani, e lavoro manuale, specialmente il lavoro agricolo era disprezzato e riservato agli schiavi. Il tempo concesso a chi parlava, specialmente a chi non stava alla tematica convenuta, era troppo poco per riferire in dettaglio, come sarebbe stato utile, sulla organizzazione "democratica” della comunità, della vita sociale, delle istituzioni e dell'assistenza ai bambini, agli anziani, ai malati od invalidi, ai rimasti soli, sulla programmazione dei lavori, degli allevamenti, sulla conservazione dei prodotti, sulla previdenza in vista di possibili "affrancazioni", su come redistribuire le terre quando i componenti delle famiglie crescevano o diminuivano, su come trascorrere i giorni festivi e tenere i contatti fra la campagna e i piccoli centri abitativi...: un miracolo di "signoria dei poveri", di "cristianesimo sociale": che sarebbe potuta finire in "una strage" se fosse apparsa, qual'era, una "rivoluzione ideologica e pratica" rispetto alle dottrine e agli assetti sociali del medioevo. A noi premeva creare le premesse per comprendere come avesse potuto funzionare e reggere, allora, una cooperativa agricola: quale ne fosse la premessa o il supporto, e quale il segreto, la forza, il plusvalore, che ne impedisse la disgregazione, il prevalere delle pulsioni individualistiche sempre in agguato nell'uomo. È importante capirlo, non tanto per il passato quanto per la cooperatività globale che pensiamo necessaria per il prossimo futuro. Ebbene, la premessa di allora fu la scoperta fatta da S. Pier Damiani, attraverso una nuova esegesi biblica, della dignità, del valore primario del lavoro agricolo, stato sempre misconosciuto e disprezzato, in tutte le civiltà antiche, comprese le classiche e lo stesso cristianesimo. Gli avellaniti dovettero sgomberare le menti dei contadini dall'idea, dalla convinzione portata dalla esperienza, che il lavoro agricolo fosse una maledizione, la vendetta di Dio per il peccato dei progenitori, fatto scontare a quegli esseri subumani che erano considerati gli homines de terra, sempre assillati dalla voglia di fuggire dai campi, anche a costo di finire in un lazzaretto e poi in una fossa comune. Riuscirono invece a far loro amare il lavoro agricolo come la primaria fondamentale collaborazione con Dio creatore. Il plusvalore, la forza vitale, l'antidoto al veleno dell'egoismo e del disfattismo, era l'assidua, disinteressata dedizione e presenza dei monaci, l'esempio che davano di rispetto per l'uomo e per il lavoro, la capacità di mortificazione propria a favore del benessere altrui. Come non credere a chi era capace di tanto? Non era una predica senza l'esempio; era l'esempio a valere più di tante parole. Oggi non sappiamo quanto si stimi, ancora, il lavoro agricolo; oggi si apprezza soprattutto l'industria; semmai, l'agricoltura che applica i metodi e i sussidi scientifico-tecnologici, con tutti i vantaggi ma anche i pericoli e i guai che ne derivano all'ambiente e alla salute.
Oggi sui valori morali derivanti dalla religione non si conta più tanto. Forse perché non si ha più fiducia nella Ragione. Ma di questo passo non c'è molto futuro per l'uomo. Su questi punti bisognerà tornare, altrimenti la cooperazione globale non sarà un sogno di quelli che sanno di profezia.